Perché utilizzare la fitoterapia quando abbiamo a disposizione farmaci sperimentati e approvati dalla medicina?
di Tito Piccioni
in memoria di Vittorio Iammarino
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Quando sono uscito dalla facoltà di farmacia la mia preparazione, come quella di noi tutti, era prevalentemente chimica. Infatti, la nostra facoltà è finalizzata per i 2/3 a esami in grado di preparare lo studente alla sintesi di prodotti farmaceutici, e solo in piccola parte a esami di anatomia, fisiologia, farmacologia e di altri argomenti su materie relative ai “nostri pazienti”.
Ho sentito pertanto la necessità, appena laureato, di segnarmi alla specializzazione di farmacologia, per avere un approccio più centrato sul farmaco.
La nostra professione in farmacia deve in primo luogo occuparsi del farmaco, della sua corretta conservazione, utilizzo, tempi di somministrazione, ma anche dei suoi effetti collaterali, e seguire il paziente dall’adeguatezza terapeutica all’aderenza terapeutica.
La farmacologia non è una materia di grandissimo interesse solo per gli ipocondriaci alla Carlo Verdone, ma è una materia entusiasmante. Attraverso la farmacologia entriamo nel dettaglio del farmaco, dei tentativi di renderlo un proiettile magico in grado di colpire solo la patologia, preservando totalmente l’essere umano; dei meccanismi recettoriali attraverso cui funziona nell’organismo, dei percorsi di ricerca per poterlo immettere sul mercato, e della fase 4, ossia della farmacovigilanza, che più ci dovrebbe competere. Negli studi farmacologici si tenta di individuare, infatti, il più possibile tutti gli effetti collaterali che il farmaco potrebbe provocare, le interazioni con la fisiologia dell’organismo, con l’alimentazione, con altri farmaci.
Emergono, anche se un po’ nascosti tra le pieghe delle lezione, le fortissime spese economiche necessarie per arrivare ad immettere sul mercato un nuovo farmaco e gli elevatissimi interessi conseguenti al successo commerciale del prodotto.
Ad una spinta sana e generosa dei ricercatori per migliorare la salute dei pazienti, fa da contraltare la giusta necessità dell’industria farmaceutica di creare utile dalla ricerca compiuta.
Una volta completata la ricerca il nuovo prodotto viene immesso sul mercato, ed inizia la fase quattro della sperimentazione clinica, ossia l’osservazione e la raccolta dati dei possibili effetti collaterali non scoperti durante la fase tre. Ai non addetti ai lavori potrebbe sembrare cinico da parte dell’industria farmaceutica questo tipo di ricerca, ed invece è un elemento essenziale, perché sarebbe impossibile nella fase tre della sperimentazione clinica del prodotto sull’uomo, avere un quadro completo di tutti i possibili effetti collaterali, dato che alcuni di questi si manifesteranno su un paziente ogni 10.000, ogni 100.000 ogni milione di utilizzatori finali del farmaco e questo tipo di risultato sarebbe impensabile ed impossibile produrlo quando la ricerca può coinvolgere solo poche centinaia di pazienti.
La questione degli effetti collaterali è una di quelle domande che molto spesso ci vengono rivolte, è quella che maggiormente provoca sfiducia nel prodotto di sintesi da parte del consumatore finale su tutta quanta la filiera medica e della farmacologia.
Moltissime persone non vogliono prendere farmaci per timore degli effetti collaterali (il caso più eclatante, direi, l’abbiamo potuto osservare negli ultimi due anni con i vaccini) e vengono in farmacia chiedendo delle terapie più dolci, e fra queste l’omeopatia in primis, e la fitoterapia.
Dell’omeopatia non vorrei parlare in questo articolo, quello su cui mi interessa focalizzare l’attenzione è invece la fitoterapia. Quest’ultima non è, come da molti pazienti ritenuta, una terapia alternativa alla farmacologia, ma è la terapia con cui l’uomo si è curato negli ultimi millenni, e che solo negli ultimi ottant’anni è stata sostituita dalla farmacologia di sintesi.
Moltissimi dei farmaci ancora oggi utilizzati sono, come ben sappiamo, su base fitoterapica e gran parte delle ricerche farmacologiche eseguite partivano dall’utilizzo del fitoterapico per cercare di identificarne il principio attivo utile al suo interno.
Gran parte dei pazienti che utilizzano farmaci solo se strettamente indispensabili si rivolgono però alla fitoterapia con tranquillità e questo mi ha spinto, ormai da quarant’anni a studiare se questo atteggiamento, che inizialmente mi sembrava anacronistico, avesse una qualche base scientifica, se tra la terapia fitoterapica e la terapia farmacologica sintetica vi fossero delle differenze sostanziali, tali da giustificare un simile atteggiamento.
Questa è stata la ragione prima, condivisa con il mio amico fraterno Vittorio Iammarino, che ci ha spinto a studiare i prodotti fitoterapici, i loro meccanismi di azione, le loro relazioni con la fisiologia dell’organismo, cercando sempre di ragionare con la stessa logica scientifico – sperimentale con cui ci siamo formati all’interno della facoltà.
Abbiamo pertanto seguito dei Master, quello di Viterbo sotto la guida del professor Miccinilli (più di impronta medica e di Medicina Tradizionale) e quello di Roma, sotto la direzione e la guida del professor Serafini, responsabile italiano per quanto riguarda gli studi fitoterapici per l’EMA (European Medicines Agency), più di impronta farmacologica e di Medicina delle Evidenze.
Più siamo entrati all’interno della materia e più ci siamo resi conto che vi sono alcune differenze importanti fra la logica di utilizzo di prodotti di sintesi rispetto alle singole patologie e la logica terapeutica fitoterapica, differenze, che volendo semplificare al massimo è assimilabile a quella tra il vecchio medico di base che cercava di osservare il paziente nel suo complesso, diremmo oggi in termini olistici, rispetto all’atteggiamento degli specialisti, che sempre più tendono a osservare con la lente d’ingrandimento il singolo organo ed i suoi possibili deficit, decontestualizzandolo dall’individuo nel suo insieme.
Perché possiamo affermare che esiste questa differenza?
Quando noi parliamo di un prodotto fitoterapico facciamo riferimento ad una struttura complessa in cui non vi è un unico principio attivo, ma troviamo decine ed in alcuni casi centinaia di sostanze che interagiscono spesso in sinergia tra di loro ed in altri casi con meccanismi autolimitanti.
La pianta tende a curare sé stessa, ed ha una struttura anatomo fisiologico molto diversa dall’uomo. Essendo stanziale ha sviluppato nel corso dell’evoluzione una costituzione modulare, in modo tale da poter essere distrutta da fattori ambientali o mangiata da un animale per tre quarti e continuare a crescere non perdendo le sue caratteristiche. A differenza del mondo vegetale l’uomo si muove, ed in tal modo può sottrarsi ai suoi predatori, ma, se perde la testa o il fegato, o il cuore smette di battere non è in grado di continuare a sopravvivere.
Questa differenza esiziale rende evidente l’appartenenza a due mondi distinti.
Ciò nonostante, la base genetica delle piante, il suo DNA, è formato dalle stesse basi puriniche e pirimidiniche con cui è formato anche l’uomo. Voglio dire con questo che ci sono delle forti similitudini con cui la pianta cura sé stessa, che possono essere utilizzate nella cura dell’uomo.
L’osservazione che le terapie farmacologiche di sintesi risolvono dei problemi ma ne creino di nuovi all’interno dell’organismo è frutto dell’esperienza comune, ed è evidente a tutti coloro che si sono dovuti curare.
Le droghe vegetali utilizzano sistemi biologici di cura messi a punto in centinaia di milioni di anni di evoluzione, altrettanto complessi dei sofisticatissimi meccanismi di equilibrio organico che ci permettono di sopravvivere superando la competizione con le altre specie presenti sul pianeta. Per tale ragione gli effetti collaterali che si possono avere con la cura con le piante medicinali sono nella maggioranza dei casi più limitati.
Oggi gli studi in fitoterapia sono sempre più approfonditi, sempre più numerosi, e negli ultimi dieci anni sono addirittura decuplicate le pubblicazioni all’interno di Pubmed, ma tali ricerche vengono prese poco in considerazione proprio dalla classe medica. Perché questo accade?
La nostra formazione scientifica tende ad invecchiare molto rapidamente. Una volta laureati, diciamo che nell’arco di 5 – 10 anni se non continuassimo a studiare, la nostra professionalità sarebbe inutilizzabile. Per tale ragione esiste l’obbligo di legge della Formazione Continua in Medicina e Farmacia. In che modo avviene tale formazione?
La maggior parte della formazione avviene attraverso gli informatori dell’industria farmaceutica che evidenziano i loro prodotti, attraverso gli studi effettuati sui loro farmaci e mostrano i passi in avanti rispetto alle vecchi terapie.
Per quanto riguarda le ricerche compiute su argomenti di fitoterapia nessuna ditta che faccia ricerca su nuovi prodotti sponsorizzerà la loro diffusione e la ragione è molto semplice, un prodotto farmacologico viene brevettato e l’industria farmaceutica, che la sintetizzata e la produce e commercializza tenderà a rifarsi dei soldi grazie a quel brevetto; il mondo biologico, la natura, la fitoterapia non possono essere brevettati. Nessuna industria può mettere il cappello su un prodotto fitoterapico e quindi l’interesse a propagandare la conoscenza di nuovi studi compiuti su di una droga vegetale presso la classe medica e più in generale verso la comunità scientifica, è praticamente azzerata.
I ricercatori su argomenti di biologia vegetale (Stefano Mancuso è uno tra i pochissimi che hanno raggiunto una certa notorietà in questo campo) hanno pochissimi mezzi economici e non hanno certo la possibilità di divulgare i loro studi.
Ciò nonostante, l’enorme sviluppo del numero di ricerche in questo campo, dimostra che sempre più scienziati trovano interesse a valorizzare le diversità tra una terapia fitoterapia rispetto ai prodotti di sintesi.
Moltissimi esempi possono avvalorare la tesi secondo cui, in alcuni casi, la terapia fitoterapica raggiunge risultati più compatibili con la fisiologia umana rispetto all’intervento con un prodotto di sintesi. Ne analizzerò in poche battute uno per chiarire meglio il mio pensiero.
Nelle gastriti e nel reflusso gastroesofageo viene somministrata una terapia standard basata su “inibitori di pompa protonica” che per il grande pubblico assumono il nome rassicurante di “gastroprotettori”.
Questi farmaci bloccano la produzione di acido cloridrico dello stomaco, con l’effetto miracoloso di interrompere istantaneamente i dolori gastrici ed i fenomeni di reflusso. In parole povere spengono l’azione digestiva dello stomaco, mettendolo a riposo.
L’effetto miracoloso, che ha consentito di azzerare gli interventi chirurgici di ulcera gastrica, si trasforma a lungo termine in un vero disastro. Il cibo indigerito che passa per lo stomaco si riversa nell’intestino, dove si crea, alle lunghe, una flora batterica intestinale patogena. A questo primo danno si aggiunge il cattivo assorbimento di alcuni elementi indispensabili per l’organismo quali calcio, ferro, Vit. B12 … e se la terapia viene protratta per anni, cosa sempre più frequentemente accade, i danni che si producono possono riguardare il cuore ed il cervello, con un aumento statistico di casi di infarto del miocardio e di ictus cerebrale. Questi effetti collaterali drammatici sono stati evidenziati grazie alle segnalazioni internazionali di fase 4, rendendo necessaria la modifica del foglietto illustrativo (il cosiddetto bugiardino) dell’utilizzo di questa classe di farmaci per un periodo limitato di tempo.
Se si seguisse la fisiologia dell’organismo, anziché un contrasto come quello prodotto dagli inibitori di pompa, si potrebbe incrementare la produzione mucosa dello stomaco, meccanismo attraverso cui, fisiologicamente, lo stomaco si protegge dall’acidità autoprodotta.
Esistono numerosi farmaci fitoterapici, quali ad esempio la liquirizia, che stimolano le cellule mucose intestinali (con meccanismi multipli) proteggendo lo stomaco.
Tutti sanno che la liquirizia, ad alto dosaggio, causa ipertensione; quindi, può essere data solo agli ipotesi, ma esistono in commercio delle liquirizie deglicirizzate che espletano la loro azione protettrice sullo stomaco senza produrre danni pressori[1].
Di fronte ad un’ulcera duodenale, o ad un periodo di reflusso stagionale l’utilizzo di un Inibitore di Pompa Protonica (IPP) è sacrosanto, il problema è però saper abbandonare per tempo tale strategia farmacologica. Coloro che utilizza gli IPP in modo costante sono quei soggetti che debbono proteggere lo stomaco dai danni da FANS o da cortisonici, ma oggi sappiamo del rischi connessi a tali terapie.
La fitoterapia ci consente di adottare diverse strategie contro l’acidità di stomaco e contro il reflusso, come per qualunque altra patologia, a seconda di molteplici variabili (compromissione del tratto faringo-esofageo, stato d’ansia del paziente, tipo di alimentazione, qualità del sonno …) che in questa sede non ci interessa approfondire. È più interessante sottolineare come una terapia fatta con piante officinali si debba adattare al singolo paziente, alla sua età, alla sua corporatura, al sesso oltre essere sempre messa in relazione alle diverse patologie e conseguenti terapie preesistenti. La Fitoterapia ci consente di creare una terapia personalizzata al singolo paziente.
Altrettanto fondamentale è il mettersi in allarme di fronte a quei pazienti che vogliono utilizzare cure fitoterapiche perché convinti che non abbiano effetti collaterali. Sappiamo bene che le terapie con droghe vegetali hanno interazioni, effetti collaterali ed allert d’utilizzo in caso di altre patologie, oltre ad essere potenzialmente allergizzanti ed in alcuni casi fortemente dannosi in caso di sovradosaggio (piante contenenti olii essenziali debbono valere come esempio generale di piante epatotossiche in caso di abuso).
La Fitoterapia è una scienza complessa, in alcuni casi tutt’altro che dolce, ma sicuramente molto efficace e compatibile con i meccanismi fisiologici dell’organismo; Per tali ragioni, la competenza del farmacista nel supportare il paziente in un corretto utilizzo terapeutico delle droghe vegetali è, e resterà sempre di primaria importanza.
La piena conoscenza della materia fitoterapica, ci consente di assumere il ruolo di farmacista – prescrittore, se ricordiamo sempre di non invadere il campo medico attraverso diagnosi che per gli studi da noi svolti non possono mai essere di nostra competenza.
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[1] La liquirizie deglicirizzate stimola i normali meccanismi di difesa e la guarigione della membrana mucosa danneggiata, aumentando l’apporto di sangue alla mucosa, attraverso tre diversi meccanismi d’azione:
°Aumento del numero di cellule mucipare della membrana mucosa
°Aumento della quantità di muco prodotta dalle cellule mucipare.
°Aumento della durata della vita delle cellule intestinali.
18 differenti studi sono stati pubblicati negli ultimi 10 anni su Pubmed che mettono in relazione la Glycyrrhizin deglycyrized con l’acidità di stomaco, di cui 9 con Free Full Test, per chi avesse voglia di approfondire l’argomento.